A Questo Punto | Jonathan Zenti si racconta.

1

Le parole sono importanti, lo conferma perfino Nanni Moretti in Palombella Rossa, ma quando le ascoltiamo anziché leggerle assumono un tono decisamente diverso in base anche al nostro interlocutore. In vista dell’uscita dell’audio documentario “A Questo Punto” in onda dal 30 Settembre su Rai – Radiotre, all’interno di Tre Soldi con tema:”Il Nord-Est dal Vajont alla crisi finanziaria in direzione del futuro prossimo venturo”. Abbiamo voluto conoscere maggiormente Jonathan Zenti, autore del documentario con grande esperienza nel settore, socio di Audiodoc e tra i protagonisti del prossimo Internazionale a Ferrare 2013 ad Ottobre, per esplorare le dinamiche di questo mondo e di come il raccontare attraverso la voce e non solo con le immagini possa essere comunque avvolgente.

Come nasce la passione di fare documentari?
Prima è nata la passione per la radio, quando ho scoperto, nei primi anni 2000, che consentiva di realizzare intrecci narrativi a costi contenuti (per fare una scena di elicotteri bastava registrare un pezzo di film con elicotteri e la scena era fatta). Ma all’inizio ho lavorato sulla fiction come assistente di Cappa e Drago alla trasmissione Razione K di Radio3. Finita la collaborazione con loro è arrivato il momento di capire cosa potevo fare da solo e ho scoperto che non avevo molta fantasia nell’inventare storie. Mi sono guardato attorno e mi sono accorto che la realtà era piena di storie già fatte e di gran lunga migliori di quelle che io avrei potuto inventare, e quindi lì è nata la passione per le interviste e la tecnica dei documentari radiofonici. Poi è arrivato il periodo in cui ho costruito Ognuno di Noi e lì è arrivata la mia passione per la comunità, per il bene comune e per il potenziale costruttivo che le storie delle persone possono esprimere. Radio, storie e comunità, quindi: da qui è nata la mia passione per il lavoro dell’autore della realtà.

Com’è nato Audiodoc?
Audiodoc, che è l’associazione italiana degli audio documentaristi indipendenti, è nata nel 2006 in un momento in cui la radio pubblica aveva chiuso la produzione di documentari. Nasce quindi come presidio per promuovere una forma che secondo i fondatori aveva ancora un futuro nel panorama italiano. Io mi sono unito nel 2008 su proposta del fondatore e allora presidente (nonché grandissimo maestro italiano di audio documentari) Andrea Giuseppini, che mi aveva scovato su internet. L’attività di presidio è stata tanto entusiasmante quanto dura per tutti noi soci, ma oggi vediamo molti risultati della nostra attività: la RAI ha ricominciato, anche se con debolezza e una copertura finanziaria per amatori, la produzione, molti festival hanno inserito l’audio documentario come forma di ascolto nella loro programmazione, i nostri workshop sono sempre pieni e spesso chi partecipa poi si associa ad Audiodoc. È un lavoro volontario e impegnativo, anche perché siamo tutti documentaristi e quindi pensiamo tutti sempre di aver in mano la verità. Ma poi i risultati che otteniamo sono sempre molto solidi, anche per come abbiamo imparato ad essere disponibili ed esigenti l’uno con l’altro.

La voce in questo lavoro é molto importante cosa riesce a trasmettere di più rispetto ad altro?
La voce è solo un trasduttore anatomico di quello che è veramente importante in questo lavoro che è il linguaggio. Sembra importante la voce perché è quella che percepiamo, ma se io sono riuscito a fare documentari dal vivo di due ore e venti al termine delle quali si accendevano le luci e c’era ancora una platea piena e spesso lacrimante, era perché avevo usato il linguaggio attraverso la voce. Due ore e venti di gargarismi non avrebbero ottenuto lo stesso risultato. Il linguaggio è quello straordinario strumento che il genere umano si è inventato affinché i suoi membri potessero interagire tra loro e che ci ha permesso di avere un ruolo importante tra gli esseri viventi nonostante la nostra struttura biologica cagionevole (ed è questo, non il pollice opponibile, a consentirci di farlo). Il linguaggio è il vettore attraverso il quale si costruiscono le relazioni: le storie che noi raccontiamo sono elementi che combinati tra loro formano composti più o meno stabili: il mio lavoro è quindi il lavoro del chimico, a seconda degli elementi che combino creo composti nuovi che prima non esistevano: e la voce è uno degli strumenti che ho a disposizione nel mio laboratorio, oltre alla musica e ai suonid’ambiente.

Programmi in futuro?
Come racconto nel mio nuovo documentario “A Questo Punto” il mio programma per il futuro è pagare la mia cartella di Equitalia: qualche anno fa infatti ho fatto questa scelta: c’era una ricerca da fare nell’ambito dell’uso dei mezzi di comunicazione nella comunità e nessuno, né istituzioni né istituti di credito, era interessato a finanziarla: io poi, al contrario di molti miei concittadini e coetanei che si sono lanciati nel luccicante mondo delle start-up, non avevo un patrimonio familiare su cui fare affidamento. Avevo deciso quindi di utilizzare i soldi delle tasse per questa ricerca; oggi la ricerca è finita e ciò che è nato dai risultati è sul mercato, e quindi posso ripagare il mio debito con il fisco, con la consapevolezza di aver dato alla comunità qualcosa in più che prima non c’era. Per rimanere in Italia, in questo momento, questa era l’unica strada possibile e questo la dice lunga sul punto a cui siamo.
A parte questo, le esigenze per il futuro sono quelle di scrivere il fondamento teorico-metodologico messo a punto in questi anni di ricerca; poi fare formazione soprattutto a chi frequenta le scuole superiori, in modo da formare una generazione che preferisce restare qui in trincea piuttosto che accomodarsi all’estero, e continuare a lavorare con il mondo delle imprese del Nord Est, che facendo questo ultimo documentario ho scoperto essere un bacino di conoscenza molto prezioso (altro che università…). E poi manca uno snodo europeo per gli autori indipendenti di audio documentari: con Audiodoc vorremmo fondare questo snodo in Italia,, un po’ ci stiamo provando con Mondoascolti al Festival di Internazionale a Ferrara. Sarebbe importante, vediamo se ci riusciamo.

Cosa consiglieresti a chi si approccia a questo mondo?
Spesso chi viene a fare formazione è alla ricerca di una svolta. Quel tempo qui in Italia è finito e si è spostato in altri paesi, e i nostri genitori lo sviluppo se lo sono mangiati e ci hanno lasciato ben poco. Oggi non si può più pensare di fare un lavoro per sé stessi, per un interesse individuale, per una ambizione personale. E soprattutto non si può pensare di “farsi concorrenza senza mai lavorare” come dice Lo Stato Sociale. Oggi il lavoro, anche quello dell’autore della realtà, è tornato ad avere le caratteristiche del lavoro contadino fino agli anni ’50: un lavoro ciclico, che vive di stagioni e dove quello che si raccoglie lo si usa per mangiare e poco più, e poi per riseminare per la stagione successiva. Oggi si deve lavorare affinché la comunità si possa sentire in salute, è solo in questo modo che abbiamo delle possibilità per un nuovo sviluppo. Sempre in questo ultimo documentario, uno dei superstiti del disastro del Vajont dice “Se Longarone è stata ricostruita è perché molta gente ha avuto il coraggio di tirarsi su le maniche e di lavorare. Ed è anche per questo che per anni se ne è parlato ben poco”. Ecco, consiglierei questo: tirarsi su le maniche, lavorare, e parlare ben poco.

Come si configura la tua giornata tipo?
Mi sveglio e come un autonoma mi dirigo alla mia macchina del caffé americano, dove mi faccio un litro di un intruglio fatto di caffè macinato grosso, orzo e cicoria, che mi accompagna fino a pranzo. Apro la mail, impreco, e inizio a gestire quello che mi si presenta davanti. A volte si è in fase di produzione quindi ci sono giornate di interviste o di registrazione in studio o di montaggio, passando le ore su Pro Tools. Altre in fase di progettazione, per cui Thunderbolt, Firefox e Libreoffice. Incontri con la mia squadra di colleghi su Skype o al telefono. A pranzo e a cena mangio guardandomi una puntata di qualche serie televisiva, cercando di mangiare sano ma non sempre riuscendoci. Alle cinque e mezza faccio merenda ascoltando Sebastiano Barisoni su Radio24. Mi faccio la doccia e lavo i piatti ascoltando documentari in streaming. E poi cinema, ogni tanto, quando riesco e amici, ogni tanto, quando riesco. Il resto del tempo lo spendo nel mio grande vizio che è la procrastinazione. L’ultima vacanza l’ho fatta nel dicembre del 2010.

Una domanda che vorresti porti e che non abbia una risposta
Faccio il contrario. Vi lascio con una risposta che non ha una domanda. Perché ciò che rende possibile il mio lavoro è che non esistono domande senza risposta, mai, non le ho mai incontrate. Ci siamo chiesti per millenni da dove veniamo, abbiamo costruito un acceleratore di particelle e abbiamo conosciuto il Bosone di Higgs. Come scrisse Douglas Adams nella Guida Galattica per Autostoppisti, la risposta alla vita, all’universo e a tutto quanto c’è già, ed è 42: solo che non sappiamo quale sia la domanda. Ciò che, nonostante tutto, mi fa avere ancora fiducia nel futuro della nostra specie è che il mondo ha già dentro di sé tutte le risposte di cui abbiamo bisogno. Sono le domande che mancano, e che dobbiamo imparare a fare.

SUBSCRIBE
Unisciti alla nostra mailinglist, sai che vuoi farlo.