FuorInterviste | Mauro Ottolini

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Mauro Ottolini è tra i musicisti più apprezzati della scena jazz italiana.
Trombonista, arrangiatore, compositore, polistrumentista ma non solo: è autore di un cartone animato, “Walking man blues”, e ha scritto un romanzo a quattro mani con la cantante Vanessa Tagliabue sul tema dell’omonimo concept album “Bix factor”, per raccontare una storia tutta da leggere e ascoltare.
Sousaphonia è il nome che ha scelto per la sua musica, “musica in movimento”, come lui stesso l’ha definita in più occasioni: arpe giocattolo, chiavi, videogiochi – addirittura una conchiglia del mare delle Antille – si fondono alle sonorità di ottoni, bassi, chitarre, flauti e tastiere del collettivo musicale Sousaphonix, la Big Band che da anni lo accompagna durante i suoi spettacoli. Una musica a più dimensioni e in continua evoluzione, capace di arrivare al cuore di chiunque vi entri in contatto.

Mauro, si può dire che la tua carriera musicale sia cominciata con l’orchestra dell’Arena di Verona. Come ti sei avvicinato all’Opera?
Avevo da poco conseguito la maturità, quando uscì un bando dell’Arena che cercava proprio un trombone per la sua orchestra e allora decisi di partecipare. Mio padre mi diede un limite massimo di due anni, scaduti i quali, se non fossi riuscito a diventare musicista, sarei dovuto andare a lavorare nella sua officina, dal momento che avevo un diploma di perito tecnico. Feci l’audizione, tanto per provare, poi in Arena ci sono rimasto per dodici anni.

E la svolta jazz, invece quando è arrivata?
Ho sempre ascoltato qualsiasi genere di musica, dai Beatles ai Pink Floyd, a Guccini e, mentre ero ancora in Arena, ho scoperto il jazz, così ho cominciato a dedicarmici nel poco tempo libero che avevo (lavoravo anche durante la stagione invernale): mi iscrissi e diplomai al Conservatorio di Trento, nel frattempo mi dilettavo a suonare in qualche gruppo locale.

Perciò hai lasciato l’Arena per dedicarti interamente alla tua passione, il jazz appunto. E’ stata una scelta impegnativa?
In tanti cominciavano a chiamarmi per suonare, ma molte volte sono stato costretto a rifiutare perché in estate avevo un contratto esclusivo con l’Arena.
Alla fine, dopo dodici anni, mi resi conto che non ero più felice, avevo una forte attitudine per il jazz e sapevo che se avessi continuato a rifiutare le varie proposte nessuno più mi avrebbe chiamato. Allora ho capito che dovevo prendere la situazione in mano e provare a seguire la mia strada. Mio padre naturalmente non era d’accordo che lasciassi un posto di lavoro sicuro, ma ero talmente certo di quello che stavo facendo che non ho voluto nemmeno prendere l’aspettativa.

Una volta inseguita la passione, come ti sei rapportato con la realtà? Hai dovuto trovare un lavoro tradizionale o sei riuscito a vivere sempre e solo di musica?
Naturalmente i soldi non erano la mia priorità se pensi che in una stagione estiva all’Arena riuscivo a guadagnare quello che mio padre percepiva in un anno di lavoro. Ciò che davvero contava, e tuttora conta per me, sono i sogni, perché se tu hai un sogno da raggiungere la tua vita ha un senso. Il primo anno è stato difficile, mi sono dovuto adattare tante volte ma sono sempre riuscito a vivere della mia musica e, soprattutto, non c’è stato un momento in cui io non abbia fatto ciò che esattamente volevo.

Musicista ma non solo. Hai anche ideato un cartone animato, “Working man blues” e scritto un breve romanzo a quattro mani con Vanessa Tagliabue, “Bix Factor”. Che tipo di soddisfazioni ti ha dato cimentarti in altre forme di espressione artistica?
Credo che la musica sia in continuo movimento, deve saper aprirsi a nuove forme di contaminazione. I miei album sono tutti concettuali, ci impiego quasi un anno a fare un disco perché parto sempre da una storia, da un’impronta verista che poi si sviliuppa in forma fantastica. Il cartone animato fa parte di un disco e il romanzo racconta una storia che va letta e ascoltata allo stesso tempo, suggerendo un’idea polidimensionale della musica.
Usiamo strumenti particolari, non convenzionali come il sousaphone, il violino bistrot, zucche, pezzi di bambù che, mescolandosi ai suoni di strumenti ordinari, ci permettono di sconfinare in altre forme d’arte. Schönberg disse che il futuro della musica sarebbero stati i timbri, una componente del suono per me fondamentale, che non sempre viene dallo strumento musicale, ma anche da strumenti insoliti capaci di creare un ambiente sonoro che accompagni il solista: riprodurre il rumore di un treno che corre sulla ferrovia mentre suona una chitarra, per esempioi diversi timbri che fanno parte del paesaggio sonoro che ci circonda. Le dinamiche permettono di cogliere e catturare particolari che le sole note non sono in grado di fare: quel suono riesce a darti un’idea dell’ambiente che vuoi ricreare, la musica racconta una storia in grado di arrivare al cuore di chiunque. Considero tutte queste cose colori e sfumature di una stessa esperienza sensoriale.

Che consiglio ti senti di dare a un giovane che come te vorrebbe fare della musica un lavoro?
Sono tempi duri questi e mi spaventa molto la disillusione dei giovani: vivono nella consapevolezza che non riusciranno mai a lavorare con la musica, non hanno nulla in cui credere, sono demotivati. Per questo ai giovani dico di muoversi, andare all’estero ma, soprattutto, di non scendere mai a compromessi con l’arte. Ognuno di noi deve trovare la sua strada e avere consapevolezza di se stesso, è un lavoro di grande personalità e responsabilità: bisogna guardarsi dentro, capire le proprie attitudini. Se si ha davvero qualcosa da dire allora si riesce a dirla. Seguite i vostri modelli ma abbiate anche il coraggio di essere voi stessi.

Di Isabella Sacchetti | UncoMag x BoBos

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