Dopo i silenzi cullanti della Cappadocia e quella dolcezza dell’ospitalità innata che ti accoglie calorosamente in spazi desertici surreali, ritrovarsi catapultati a Pamukkale è un duro colpo. Catapultati si fa per dire, perché è necessario percorrere circa 8 ore di strada prima di arrivare, avvolti da quei paesaggi senza fine in cui la vegetazione combatte sempre più duramente contro il sole accecante e il disordine di alcune cittadine incontrate sulla strada.
Pamukkale significa “castello di cotone”, un nome avvolgente e morbido per uno dei patrimoni dell’umanità e degli spettacoli più incredibili al mondo, racchiuso in un caos esplosivo di turisti di ogni etnia e parte del mondo, che ne rendono quasi impossibile la risalita. Prima, Pamukkale era ricca di piscine dall’acqua termale cristallina, ora la maggior parte sono vuote perché i vicini hotel le hanno prosciugate. Nel momento in cui ci si riesce a isolare anche solo per qualche istante, è come ritrovarsi in un mondo alieno, fatto di colline bianche su cui camminare scalzi, ruscelli di acqua calda e cascate danzanti.
Se il caos esplosivo di Istanbul lasciava quel senso del dubbio che ti spinge a capire di più prima di tutto di te stessa e poi del resto del mondo, il caos di Pamukkale non è esplosivo, bensì statico e riconduce solamente al degrado del turismo.
Si riprende in mano la strada e si arriva dopo poco più di 2 ore a Selcuk, la città che ospita le antiche rovine di Efeso, dove i dettagli seppur minimi ritornano protagonisti. Pietre cadute al suolo, monumenti ancora intatti, librerie millenarie che, seppur ricostruite di recente, esprimono la grandiosità della cultura antica del Mediterraneo. Iscrizioni così curate nei dettagli, da non voler più staccare gli occhi.
Il resto della strada è in direzione Istanbul, nuovamente all’origine, nuovamente da dove si era partiti, attraverso sali e scendi di caos e armonia. La Turchia è un mix di emozioni contrastanti, di sguardi ed istanti flash da catturare.