Live, shit and die. E non preoccupartene troppo: te lo dice Cattelan

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Cattelan è cresciuto. E da artista irriverente, dal “mi ritiro dal mondo dell’arte” (come artista), dalla personale al Guggenheim di New York che lo ha un po’ imbalsamato e incoronato, diventa curatore. Lo fa nella sua Italia, a Torino, lavorando a sei mani con Myriam Ben Salah e Marta Papini, con una mostra a Palazzo Cavour che apre in occasione di Artissima ed è portavoce di One Torino, la “costola” culturale promossa dalla stessa fiera d’arte.

Scrivere di una mostra che è stata già osannata, fatta a pezzi e amata ancor prima di essere inaugurata è parecchio impegnativo. Scrivere di qualcuno che ami alla follia è ancora più difficile. Quel furbacchione di Cattelan, che continua a prendere per i fondelli la povera Italietta, ha fatto centro ancora, ma questa volta la questione è tanto più complessa quanto più affascinante. Shit and Die è nata per raccontare una Torino diversa, è nata dalla ricerca febbrile di lavori che rispondevano o arricchivano le questioni appartenenti alla città, che Cattelan, Ben Salah e Papini hanno svelato girando per mesi nella capitale piemontese: “il suo passato di città industriale ormai in declino – racconta lo stesso Cattelan  – la fascinazione per il collezionismo, il feticismo per gli oggetti, sono state uniti assieme al lavoro di artisti torinesi e produzioni ad hoc”. All’interno della mostra ci si trova di tutto: rimandi e citazioni a personaggi torinesi da Cesare Lombroso, a Camillo Benso fino ad arrivare alla Luciana Littizzetto rivisitata dagli artisti Braida, Nicolai, Troco e Veliscek. Lo scheletro di Carlo Giacomini, che disse ai suoi studenti «Non essendo partigiano della cremazione e dei cimiteri preferisco che le mie ossa riposino nell’istituto anatomico dove ho passato i più bei anni della mia gioventù». Ma anche 40 mila dollari appesi alle pareti d’ingresso, soldi veri che ricordano la denuncia dell’artista torinese Giacomo Colosino contro Hans Peter Feldmann per avergli copiato l’idea. Il titolo, provocatorio, è stato preso in prestito da un’opera di Bruce Nauman. “Per noi si tratta di una poesia – continua Cattelan – piccola e senza pretese, dedicata all’esistenza, che mette in luce i concetti di polarità, paradosso e mistero nella condizione umana, nonché l’impotenza di fronte alla mortalità. Qualsiasi cosa una persona possa fare, vivrà, cagherà e morirà: noi, voi, Camillo Benso di Cavour, Nietzsche, Gigi Buffon”. Polemica? Affronto? Ironia? C’è spazio per tutto all’interno di questa mostra-poesia, in puro stile Cattelan che non si prende mai troppo sul serio e non prende nemmeno seriamente il Paese e la vita in cui vive, che parla dell’insensatezza del contemporaneo, della vita e della morte, e riesce a farlo divertendo, provocando e dando anche un certo fastidio: ma qual è il ruolo dell’arte contemporanea, se non questo?

Se qualcuno avesse ancora dubbi sull’importanza, e sulla bravura, di Maurizio Cattelan nell’arte contemporanea, questa mostra li spazza via. È di una densità e di una ricercatezza di parallelismi, sottili e più kitsch, tra Torino e i suoi protagonisti, morti e vivi, che anche nella sagacità del suo discorso narrativo riesce a colpire per l’assoluta dimestichezza con cui una città riesce ad essere raccontata in un modo lontano anni luce dai soliti stereotipi.

(Photos credits: Vanity Fair)

 

 

 

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