Più nero di un cielo senza stelle: la storia di Anish Kapoor e del suo nuovo Vantablack

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Pensate alla cosa più scura che conoscete, una galleria senza nessuno dentro, il nero di seppia, un cielo senza stelle? Ancora di più. Si chiama ‘Vantablack’ ed è “il nero più nero del mondo”.

 

 

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Perché ve ne parliamo? Perché negli ultimi tempi c’è una storia che ha fatto un po’ discutere.
L’artista inglese di origine indiana Anish Kapoor – quello, per intenderci, della porta-nuvola di Chicago e dello specchio che riflette il cielo al Rockefeller Center di New York – ha infatti comprato i diritti esclusivi del Vantablack.

 

Un’azione molto discussa: c’è chi dice che un artista non dovrebbe avere certe ‘proprietà’, che l’arte non ha una proprietà ma dovrebbe essere di tutti. Ma c’è un precedente nella storia dell’arte che gioca a favore di Kapoor: ve lo ricordate il francese Yves Klein e il suo blue Klein vero? L’artista che degli anni Cinquanta dopo molti anni di ricerca creò l’International Klein Blue e lo brevettò nel 1960.

Nel mezzo di questo dibattito noi non ci schieriamo, ma vi raccontiamo la storia del nero più nero che c’è.
È stato prodotto dalla società britannica Surrey NanoSystems ed è stato ideato per scopi militari. Il nome Vantablack deriva dal composto di “Vertically Aligned NanoTube Arrays”, ovvero “disposizioni di nanotubi allineati verticalmente”, più black. Cosa vuol dire? Che avendo una natura militare il colore ha una composizione assai particolare. È infatti composto di nanotubi di carbonio, cilindri microscopici formati dagli atomi di carbonio. Succede che le onde luminose restano intrappolate tra questi cilindri e rimbalzano dall’uno all’altro fino a quando vengono quasi completamente assorbite: il Vantablack assorbe così il 99,965 per cento della luce ed è, effettivamente, nero nerissimo.

 

L’artista, rimasto affascinato da questo colore, ha raccontato alla BBC il motivo della sua azione: “Immaginiamo uno spazio così scuro da farci perdere il senso del tempo e di chi siamo se lo attraversiamo. Ecco, l’effetto è questo: nel disorientamento che deriva dalla perdita di coscienza dello spazio, l’uomo deve far leva su qualcos’altro, su qualcosa che non conosce nella propria interiorità».

 

 

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