Ci si potrebbe chiedere se nel 2018 abbia ancora senso un festival interamente dedicato ai fashion film. La risposta è decisamente sì, per almeno due ragioni. Il primo motivo è strettamente curatoriale ed educativo: nel caso del Fashion Film Festival Milano, in programma quest’anno dal 20 al 25 settembre, parliamo di un evento in cui la qualità del programma è alta e la varietà di contenuti indiscutibile (quest’anno si contano, solo per il concorso ufficiale, 200 opere selezionate a fronte di 800 progetti inviati, provenienti da 50 nazioni). Ce n’è insomma abbastanza per farsi un’idea piuttosto precisa dello stato dell’arte di un genere a volte sfuggevole, che assume le forme di produzioni sperimentali, contenuti pubblicitari, documentari biografici e branded content sostenuto da marchi internazionali dal successo planetario.
FℲ is for…Fendidi wiissa per Fendi.
Parliamo quindi di una ragione molto pragmatica, che può essere verificata direttamente in sala ascoltando le chiacchiere del pubblico pre- e post-proiezione. Si tratta di uno spettatore equamente diviso tra l’esperto e il curioso. Il primo sa esattamente cosa sia un fashion film – anzi, molto spesso è un vero e proprio appassionato, se non uno studente di moda, comunicazione, pubblicità o cinema. Il curioso, invece, sa magari poco o nulla dei fashion film e può capitare che chiacchierando ti chieda se conoscevi il festival dei “film di moda” o se l’hai scoperto per caso venendo all’Anteo Palazzo del Cinema, dove si tengono le proiezioni della quinta edizione del festival.
Il trailer del FFFMilano presenta alcuni dei fashion film della selezione ufficiale 2018.
Questa seconda fetta di pubblico è quella meno “esposta” ai fashion film, anche per ragioni anagrafiche. Si tratta infatti di prodotti che spesso non passano in televisione come normali pubblicità e, dunque, specie nel caso di persone più anziane che hanno meno propensione al consumo di contenuti online, sono fruiti per la prima volta in sala in una sorta di “effetto Carosello” a volte spiazzante.
Data la natura sperimentale di certi film, o la presenza di temi provocatori, alcuni spettatori possono avvertire una sorta di spaesamento, per cui non è raro sentire signori di una certa età commentare confusi il significato di quello che hanno appena visto – capiscono certo che non sono “normali spot”, ma non hanno idea di come sono nati, della loro funzione, del fatto che magari sono stati commissionati per eventi specifici o sono stati distribuiti in altri contesti in precedenza.
Bally_Retrosneakersdi Lorenzo Cisi per Bally.
C’è dunque una funzione molto importante di alfabetizzazione ed educazione di una fascia di pubblico svolta dai fashion film festival di tutto il mondo – di qui l’importanza, nel caso specifico del FFFMilano, delle proiezioni ad ingresso gratuito fino ad esaurimento posti: meno restrizioni all’accesso possono incrementare la propensione ad avvicinarsi ai fashion film.
Arriviamo poi alla seconda ragione. Un evento come questo ha infatti ancora più senso di esistere se diventa una piattaforma per affrontare, sempre a partire dallo specifico audiovisivo, alcuni temi caldi dibattuti trasversalmente nel sistema moda. È per questo che, oltre alle diverse tematiche affrontate dai film proiettati in concorso o fuori competizione (dalle identità fluide alle relazioni tra generi, dalla rappresentazione dei corpi umani al loro rapporto con lo spazio urbano e quello naturale), i progetti speciali “FFFMilano For Women” e “FFFMilano For Green” rappresentano due cruciali appuntamenti dedicati alla valorizzazione del talento femminile e all’importanza della sostenibilità nel sistema moda globale.
Paternoster di Wim Wenders per Jil Sander.
È in questa cornice che si inseriscono eventi speciali come la proiezione del documentario River Blue, dedicato all’impatto ambientale della produzione di vestiti e dunque strettamente collegato al tentativo di generare awareness sull’inquinamento dei fiumi, sull’onda delle iniziative condotte da movimenti internazionali come Fashion Revolution.
Da un lato FFFMilano mantiene dunque l’aspetto competitivo, premiato dalla giuria internazionale composta da Ana Lily Amirpour, Pablo Arroyo, Bianca Balti, Umit Benan, Carolina Corbetta, Orsola De Castro, Piera Detassis, Nicoletta Santoro, Max Vadukul e Paz Vega. Dall’altro, come emerso nell’incontro su moda e sostenibilità con Matteo Ward, Orsola De Castro, Hakan Karaosman e Marina Spadafora, quando si ha a che fare con tematiche dall’impatto globale non si tratta più solo di ego (sempre e comunque presente, trattandosi di un’industria creativa), ma di collaborare invece a livello sovra-individuale per un bene più grande come la salvaguardia del pianeta e il giusto riconoscimento (economico, sociale e morale) di tutti gli operatori della filiera.
Poster del documentario River Blue di David McIlvride e Roger Williams.
Al festival, fondato e diretto da Constanza Cavalli Etro, auguriamo quindi molte altre edizioni di successo, anche in funzione dell’essere tessera di un puzzle molto complicato al cui centro c’è un’industria in una fase di transizione molto complessa e delicata, il cui impatto globale si ripercuote a livello socioeconomico e ambientale ad ogni latitudine. Un puzzle che richiede l’impegno di tutti per essere risolto. Che tutto ciò sia raccontato dall’audiovisivo, nelle sue varie declinazioni, non può che contribuire ad amplificare un dibattito quanto mai necessario.
Per scoprire tutti i dettagli sull’edizione in corso e quelle passate: fffmilano.com
Dal nostro corrispondente: Nicolò Gallio