Turkey Shots: Cappadocia

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Sono circa 800 i chilometri di strada che separano Istanbul dalla Cappadocia, la maggior parte dei quali su strada normale, attraversando paesini turchi dimenticati da dio, campi rom e cittadine affollate. Il resto è in mezzo alla natura, ai campi coltivati di girasoli, alle colline morbide e dai colori di un’estate ormai matura. Si attraversano isolati laghi cristallini e qualche altipiano roccioso che preannuncia l’ingresso in Anatolia. In tutto questo marasma di paesaggi alternati tra di loro in cui appare sempre più netta la distinzione tra armonia naturale e disarmonia umana, il gioco delle strade turche è quello di evitare i temerari che si lanciano in mezzo per attraversare le corsie, non solo nelle vicinanze delle cittadine, ma anche nel mezzo del nulla.

L’arte del movimento… la Turchia è decisamente più interessante da osservare nel suo stato naturale al di fuori delle metropoli, quando l’influsso fortemente occidentalizzato sfuma per lasciare spazio solamente all’origine delle cose. I turchi amano il movimento, lo osservano, lo studiano, si cimentano. Si mettono a bordo della strada con sedie o divani ad osservare, si caricano la schiena di sacchi e camminano lungo le autostrade. Caricano i camion fino a fargli perdere la loro forma e si mettono in marcia. Attraversano il Paese con auto così vecchie, che a ogni salita c’è una sorta di processione di cofani aperti fumanti.

Tutto questo fino a che non si arriva nel deserto fiorito, in uno spazio così tanto surreale, da non sembrare nemmeno appartenere alla Terra. Un altopiano intervallato da “funghi” di roccia, pinnacoli e case scavate al loro interno, ognuna con il suo orticello coltivato nella polvere con una cura e una dedizione inimmaginabili. Poi ci sono le auto abbandonate arrugginite, le taniche di metallo, i gatti e i cani solitari, i signori anziano che sorridendo ti invitano a bere un bicchiere di tè, i mercati delle spezie e della frutta secca che esplodono di colori.

Il riferimento della Cappadocia sulle guide turistiche è Goreme, ma in realtà Çavusin ne incarna lo spirito più silenzioso e tranquillo, con quel cimitero disordinato al tramonto, i bambini in bicicletta che si raccontano chissà quali storie, gli uomini seduti ai tavolini dei bar, il canto del muezzin che risuona in tutta la vallata perdendosi nel nulla e quella festa di matrimonio in cui tutti ballavano felici.

A Çavusin c’è il Panorama Café, dell’anziano signore baffuto proprietario anche di una piccola pensione vicina, che si fa aiutare nel periodo estivo dalla figlia, studentessa a Istanbul. Entrambi con un sorriso talmente tanto accogliente, da non poter rinunciare a una cena sotto al loro portico. Alla domanda “cosa ci consiglia”, la risposta è semplice: “mia moglie stasera ha cucinato il pollo, va bene?”. Direi che più tradizionale di così, non si può. Una cena famigliare, semplice, ma così ricca nel suo significato e così preziosa per il suo valore di condivisione.

Pare che la Cappadocia sia un posto bello dove vivere, a tutti quelli a cui viene chiesto se cambierebbero mai posto, la risposta è no. Del resto come si può biasimarli, hanno l’incredibile fortuna di vivere in un deserto fiorito. L’aria calda spazza via il silenzio che si crea nelle vallate infinite e aiuta a sentirsi un po’ meno soli e le rotondità delle rocce dell’Anatolia, fanno sentire un po’ come a casa.

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