Premessa: nel seguente pezzo non parleremo della sfilata di Louis Vuitton e Supreme, non parleremo dei capi della collezione e non vi racconteremo dei vip presenti in prima fila. Se volete queste notizie, guardate altrove: di materiale a riguardo ne potere trovare anche troppo su altri siti di settore e non. Ciò che vorremmo fare, invece, è provare a dare un senso al perché di questa partnership partendo da ciò che era Supreme, cosa è oggi e, forse, cosa sarà in futuro.
C’eravamo tanto odiati. Diciassette anni sono tanti e in un lasso di tempo simile, molte cose possono cambiare. Oggi Louis Vuitton e Supreme sono partner e la celebrazione di questa unione è avvenuta sul più prestigioso degli altari pagani: la settimana della moda maschile parigina. Eppure nel 2000 la maison francese minacciò di denunciare James Jebbia per aver scimmiottato il logo LV su maglie, berretti e tavole da skate, contribuendo alla mistificazione di quella pratica chiamata “rip-off” tanto in voga tra i marchi streetwear. Ma cosa è successo in questi anni per far cambiare i rapporti tra i due brand? “Chi ha avuto, ha avuto.. chi ha dato, ha dato.. scordiamoci il passato”, diremmo noi in Italia. Ma in realtà le cose non sono così semplici come la canzone partenopea ci ricorda. Negli ultimi diciassette anni Supreme è cresciuto esponenzialmente diventando il leader indiscusso di un settore chiamato “streetwear”. Oggi non diciamo una bestemmia affermando che Sup è il Louis Vuitton della cultura urbana. In fondo le due aziende, pur essendo divise da 140 anni di differenza, hanno moltissimi punti in comune: entrambe sono un punto di riferimento nel proprio universo di competenza, entrambe sono abilissime nella gestione del marchio e, infine, entrambe hanno un logo dalla popolarità illimitata.
Ma perché Vuitton ha scelto Supreme come partner affidandogli un ruolo di primaria importanza all’interno della propria sfilata parigina? Alla base c’è essenzialmente una questione di opportunità. Come abbiamo già detto, Supreme è oggi il Re Mida del mercato dello streetwear, un settore che si è elevato dallo status di fenomeno di nicchia, trasformandosi in uno degli elementi portanti della cultura pop contemporanea. Tanto è vero che altre maison dell’high fashion (vedi Valentino e Gucci) hanno iniziato da qualche anno ad adottare stili, linguaggi e modalità di comportamento del mondo street. Quindi, diventa lecito pensare che Vuitton abbia voluto recuperare il terreno perduto in questi ultimi anni, facendo ricorso alla strada più breve e veloce possibile. D’altronde già in passato c’era stato un approccio al mondo underground, grazie al lavoro di Marc Jacobs che coinvolse Stephen Sprouse in un progetto per portare i graffiti all’interno dell’universo LV. Ma parliamo dei primi anni 2000, quindi una vita fa.
Ciò che sicuramente ha convinto l’attuale management della maison francese a fare il grande passo è stato l’enorme successo della collabo con Hiroshi Fujiwara, un altro dei padri fondatori della cultura street, che ha visto 4500 clienti radunarsi di fronte ad un pop-up store Vuitton per acquistare le creazioni del fondatore di Fragment Design. In secondo luogo, di particolare importanza è stata la figura di Kim Jones, direttore creativo della compagnia del Monogram. Jones, cresciuto a Londra, è un fan di Jebbia (“James è il mio eroe“, ha commentato di recente) dai tempi in cui da giovanotto lavorava per l’unica azienda importatrice di Supreme nel Regno Unito. Infine, il terzo elemento fondamentale per lo storytelling della collabo è New York. La collezione FW 2017 di Vuitton è un omaggio alla Grande Mela. E poiché non può esistere “una conversazione sullo stile newyorkese senza nominare Supreme”, ecco che il gioco è fatto. Tra l’altro, ironia della sorte, alcuni capi visti in passerella sono un chiaro omaggio ai lavori di Dapper Dan, un altro designer che negli anni ’80 fu denunciato dalle maison del lusso per appropriazione ed utilizzo di loghi altrui. Buffa la vita.
Ma in tutto ciò Sup cosa ci guadagna? Sicuramente un ritorno d’immagine pazzesco. Partire da zero con un piccolo negozio in una zona off di New York (fate una ricerca su cosa fosse Lafayette Street nei primi anni ’90 e capirete meglio) con un clientela composta per lo più da skater e personaggi poco raccomandabili ed arrivare a sfilare a Parigi, mano nella mano con Louis Vuitton, non è cosa da tutti i giorni. Commercialmente questa è l’operazione del millennio. Chi fino a ieri non conosceva Supreme, da ora inizierà a vederlo come un mito, o perlomeno come un brand da “seguire”. I più romantici vedranno in questa collaborazione la rivincita di James Jebbia nei confronti di chi in passato lo aveva denunciato per aver tentato di unire i due mondi, anche se solo in maniera fittizia. Ma in un’ottica più ampia possiamo affermare che questa partnership porterà benefici all’intero movimento street. Non a caso Bobby Hundreds (fondatore del brand The Hundreds) ha definito la collabo come “uno stimolo a lavorare ancora più duro. Supreme ci ha dimostrato che nella vita tutto e possibile”. Finalmente i cancelli del Paradiso saranno aperti anche per i ragazzi di strada.
Allora, se sono tutti felici e contenti, chi esce sconfitto da questa storia? Sicuramente i veri fan Supreme. Non quelli dell’ultima ora, ma quelli che seguono il brand sin dalla notte dei tempi. Il giorno della sfilata in molti hanno celebrato il funerale di Jebbia & Co. I più estremisti avevano già previsto la fine di Supreme il giorno in cui il brand aprì il suo primo store europeo, sdoganando così l’arrivo di tutte le collezioni nel Vecchio Continente. Lontani sono i tempi in cui per acquistare un capo Sup era necessario recarsi esclusivamente nello store di NY. Sembrano passati anni luce rispetto a quando i commessi di Lafayette Street si potevano rifiutare di vendere maglie e skateboard a chi non avesse un aspetto in linea con i canoni di appartenenza al brand. O quando all’interno del negozio si potesse guardare tutto, ma guai a toccare la merce esposta. Dopo i “fatti di Parigi”, il nome Supreme ha iniziato a circolare su siti e testate di moda come Marie Claire, Elle o Grazia. E con tutto il rispetto, Supreme ed il mondo rosa delle riviste patinate sono due rette parallele che non si dovrebbero incontrare mai. Ed è proprio questo ad aver ferito i fan più accaniti. Il passaggio da underground a mainstream può uccidere una realtà come quella fondata da Jebbia. E la collaborazione con Vuitton è stata una sorta di coltellata al cuore del vecchio fantasma di Supreme.
Ma questo è il futuro, dicono. In fin dei conti la collabo è la pratica migliore per espandere i confini aziendali senza perdere la propria identità. Grazie alle partnership oggi le aziende possono offrire un qualcosa di diverso ai propri clienti affezionati e allo stesso tempo possono raggiungere un pubblico che altrimenti non avrebbero mai raggiunto. Supreme diventa così il lasciapassare per Vuitton verso la clientela degli hypebeast, dei nuovi “giovani” ricchi asiatici e di tutti i wannabe del XXI° secolo. Al contrario, Supreme potrà fare proseliti tra giovani chicchettosi abbonati a Vogue che non sono mai saliti su di uno skate, ma che hanno tempo e soldi da investire in quantità quasi illimatata. Ed è così che si spiega il perchè del Trunk logato dai due brand a 68.500$. Ulteriore dimostrazione di questa strampalata (ma non troppo) teoria, è la decisione di distribuire i capi della collabo esclusivamente in selezionate boutique Vuitton sparse per il globo (ad eccezione della t-shirt Box Logo che sarà rilasciata attraverso i canali Supreme). Finisce così un’era. Gli antichi ideali sono stati barattati per qualche punto percentuale in più nei report di vendita; e l’anima venduta al Dio Denaro. La storia ci insegna che ogni nuova religione nasce sulle ceneri dei precedenti dèi. Da oggi avremo un nuovo Credo, ma con fedeli diversi. Benvenuti nel futuro.