La Maison de la Photographie di Marrakech si nasconde all’interno della Medina. La si incontra arrivando da una delle stradine color sabbia che si aggrovigliano nel centro della città, in un incrocio dove il fragore dei motorini si attenua e il passaggio di turisti, carretti, persone sembra essere più lento. Le luci di un vicino negozio di lampade illuminano l’entrata, un portone anonimo.
Varcata la soglia si apre uno spazio arioso e curato, un riad che porta appesi frammenti della storia marocchina. È proprio questa l’idea con cui è nata la Maison de la Photographie, un museo privato fondato nel 2009 da Hamid Mergani e Patrick Manac’h con l’obiettivo di custodire e mostrare le incredibili diversità che caratterizzano il Marocco; un archivio di fotografie, carteggi, riviste e documenti per oltre 10.000 pezzi, dal 1870 fino al 1960.
Il cortile interno del riad e i suoi corridoi sono ritmati da grandi ritratti in bianco e nero. Suggestivi primi piani si alternano a paesaggi; abitudini delle tribù berbere lasciano spazio a scene di vita ordinaria nella piazza di Jamaa el Fna, la principale di Marrakech e nominata dall’UNESCO patrimonio orale e immateriale dell’umanità per il suo potere aggregativo. Cantastorie, musici, incantatori di serpenti, ballerini, commercianti, la piazza è immortalata nel suo pullulare di genti, che dalle prime ore del mattino la affollano fino a tarda sera. Salendo ai piani superiori il percorso continua indietro nel tempo, in un tempo però non così distante dalla realtà che si vive attraversando la Medina anche oggi. Gli scatti sono spesso privi di firma, fotografi anonimi che hanno saputo catturare attimi semplici, capaci di raccontare un popolo e la sua cultura. Sono forse proprio quelle senza autore le immagini più suggestive, ma non mancano fotografie di Denise Bellon, Pierre Boucher e René Zuber di Alliance Photo, che viaggiarono in Marocco sul finire degli anni Trenta e regalarono alla regione nordafricana un suggestivo reportage cui il museo dedica ampio spazio. La Maison de la Photographie è da visitare proprio per questo, un’immersione nella storia che sorprende con la sua misurata semplicità. Un catalogo visivo che racconta sottovoce e con orgoglio un popolo congelato nel suo eterno presente.
Muovendosi tra i grossi vani a volta che scandiscono i corridoi e il ballatoio esterno si ammira anche l’architettura del museo: il cortile centrale del riad ospita una pianta che si arrampica fino alla punta estrema dell’edificio, fiori rosa chiaro la inondano di colore. L’azzurro delle piastrelle si armonizza con il bianco e il verde scuro delle pareti; mosaici e decorazioni lasciano spazio a tendaggi leggeri che ondeggiano lenti al passaggio ora di un turista, ora di un soffio di calda brezza. L’ultimo piano del riad ospita il documentario di Daniel Chicault, Paysages et visages du Haut Atlas, e una collezione di piastre di vetro dedicate proprio alla catena montuosa dell’Alto Atlante. Una piccola scala a chiocciola permette di raggiungere il tetto dell’edificio, dove una terrazza panoramica accoglie i visitatori per una tazza di tè caldo alla menta. Il tramonto, visto da qui, batte forte come un tamburo, un ritmo ancestrale che rimbomba nel riflesso degli occhi di chi guarda.
Maison de la Photographie, Marrakech: http://www.maisondelaphotographie.ma/index.php.