Philip Seymour Hoffman: il fuoco che brucia dentro

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Philip Seymour Hoffman è morto: 46 anni, solo, nella vasca da bagno di un appartamento a Manhattan, una siringa nel braccio. Overdose. Non è il primo e certo non sarà l’unico artista ad andarsene all’apice del successo, per colpa della droga.

Ora tutti parleranno e scriveranno di come Hollywood e la fama abbiano portato troppi talenti oltre l’orlo del baratro. Un déjà vu, sì, ma anche un cliché. Perché per tutti quelli che vengono travolti ce ne sono migliaia che vivono vite normali, senza scivolare nella disperazione.
Hoffman non è stato ucciso da Hollywood. È stato ucciso da qualcosa di intimo. Non so quali demoni albergassero tra i suoi pensieri ma sono certo che ce ne fossero. 23 anni senza toccare droghe, poi una ricaduta letale. Ciò significa che la tentazione è stata sempre lì, nascosta ma presente, come un incendio sotterraneo.
Nell’ultima intervista, rilasciata durante il Sundance Film Festival, appare distratto, preoccupato. Gli occhi sfuggenti, puntati verso l’alto o il basso, mai ai colleghi o al giornalista. Un altro uomo rispetto a quello che scherzava con la stampa un anno prima, raccontando i propri ruoli con evidente passione.
Sappiamo che in lui c’erano dei demoni perché ce li ha mostrati in troppi film. Si può essere attori straordinari (lui lo era) ma non si possono incarnare tormento e sofferenza in modo così convincente senza averli vissuti a lungo.
Potrei spendere centinaia di parole, discutendo i suoi ruoli, uno per uno. Sono stati più quelli di “cattivo” di quelli da “buono”. Cattiveria alla quale non ha mai impresso esagerazioni o macchiettismi, neanche quando il contesto lo permetteva (pensiamo a Mission Impossible III). Vorrei, invece, soffermarmi su un solo film, tra l’altro poco conosciuto.

Si tratta di Synecdoche, New York, capolavoro oscuro ed angosciante di Charlie Kaufman (sceneggiatore prediletto di Spike Jonze). Hoffman vi interpreta il commediografo Caden Cotard, la cui vita è dedicata alla creazione di un’opera teatrale che rappresenti la vita. Finirà per costruire un set grande come la vera New York, nel quale lui stesso è una comparsa, infine guidato nelle sue azioni da un regista invisibile, in quel grande, incomprensibile spettacolo che è la vita.
All’inizio del film Caden e la moglie si trasferiscono in una casa nella quale brucia un incendio perpetuo. «Mi piace, molto, ma sono un po’ preoccupata di morire tra le fiamme»: afferma la moglie. «È una decisione importante, scegliere come si preferisce morire»: le risponde l’agente immobiliare.

Ecco: io credo che Philip Seymour Hoffman sia stato consumato dal suo incendio personale. Ce l’abbiamo tutti, acceso tra salotti, cucine e camere da letto. C’è chi riesce a ignorarlo e chi ha bisogno di espedienti, anche pericolosi, per fingere di non sentirne il calore. Caden, al quale l’attore diede vita con crepuscolare rammarico, non riesce a completare l’opera perché essa si espande infinitamente, fino a ché non ne perde il controllo, sempre che mai lo abbia avuto.
Hoffman è stato uno dei più grandi della sua generazione, mai, invecchiando, sarebbe diventato la parodia di se stesso, come è successo a De Niro. Avrebbe cercato di essere di più, e ancora di più. È una corsa che può uccidere.

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