FuorInterviste | Davide Pizzigoni

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Davide Pizzigoni è laureato in architettura, ha curato diverse scenografie teatrali e disegnato una collezione per Bulgari. Quest’anno è curatore, insieme a Francesca Molteni, dell’installazione multimediale “Dove vivono gli architetti”, presentata durante il Salone del Mobile. Un racconto composto da otto blocchi, otto come le case dei grandi architetti: Shigeru Ban, Mario Bellini, David Chipperfield, Massimiliano e Doriana Fuksas, Zaha Hadid, Marcio Kogan, Daniel Libeskind e Studio Mumbai/Bijoy Jain. Un’esperienza che concede al visitatore/spettatore di spiare nelle loro case, di sentire l’eco della storia delle città in cui sono situate. Un’’installazione che permette di scoprire le abitazioni vivendole liberamente , muovendone i pezzi come se fossero le ballerine di un Carillon.

Come definiresti l’installazione multimediale “Dove vivono gli architetti”?
“Un racconto”, in questa parola c’è tutto. Una narrazione, non la riproduzione fedele delle loro abitazioni. Quest’ultimo è il lavoro fatto dalle riviste di architettura, ma non avrebbe funzionato replicato in un’istallazione. Il nostro lavoro vuole raccontare, non mostrare, le loro case attraverso un lavoro di investigazione. Abbiamo intervistato i padroni di casa, abbiamo fotografati e ripreso i momenti dell’incontro e del viaggio e li abbiamo inseriti all’interno dell’installazione.

La reazione degli architetti?
Gli architetti non hanno partecipato alla realizzazione di questa mostra. La difficoltà più grossa è stata quella di fare in modo che si fidassero di due autori che andavano ad interpretare le loro case. È stato interessante raccontare dettagli che persino all’architetto sfuggono.
Il racconto delle abitazioni rispecchia alcuni aspetti del luogo in cui sono situate?
Prima di andare a Parigi a trovare i Fuksas, abbiamo lavorato sulle foto, sapendo che la casa era in Place des Vosges. Inoltre si trova in linea d’aria rispetto alla Piazza della Bastiglia, simbolo della Rivoluzione Francese. Data la posizione dell’abitazione, è bastato guardarla in foto per sentire l’eco della storia, proveniente da questo scenario classico e magnifico.

Come avete raccontato questa casa?
Sopra ad un tavolino abbiamo notato delle piccole statuette di legno dei Dogon del Mali. Ho costruito la prima stanza dell’installazione stampando le foto di ogni statuetta su quattro pareti mobili, su una lamiera ondulata di Jean Prouvè, perché tutti i mobili di Fuksas sono di questo designer francese degli anni 40’-50’. Ho cercato un contrasto tra l’europeo moderno e il senza tempo delle sculture.

Perché è possibile muovere le pareti?
Abbiamo chiesto al nostro compositore due precise tracce sonore per quella stanza: la prima richiama la valigia trascinata sul pavé: la colonna sonora del viaggiatore che arriva a Parigi, un suono che gli abitanti del posto hanno nell’orecchio. In seguito abbiamo voluto far sì che il rumore riprendesse, acquietandosi, le note della musica da carillon. Due secoli fa nei carillon c’era una danzatrice che girava su sé stessa. Dunque il pubblico che entra nella prima stanza di Fuksas, gira le pareti e fa ruotare le danzatrici/statuette.

Installazione multimediale e anche interattiva?
L’interazione è alla base della narrazione. Il racconto è sì una visione del singolo, ma c’è bisogno dell’ascolto, di una risposta, di un gesto: il lettore/spettatore che percorre lo spazio. In alcune interpretazioni delle case ci sono più proiezioni che vanno in simultanea, la scelta di quale seguire spetta a te. Oppure puoi metterti le cuffie e decidere di isolarti.

Un esempio di intervista?
Fuksas ha in casa un tavolo di cinque metri. L’ho rifatto usando il colore bianco e mettendo due monitor, incorniciati come due quadri, a capotavola. I filmati raccontavano l’intervista, ripresa con due telecamere simultaneamente. Così quando uno parlava, l‘altra ascoltava, come re e regina francesi del passato. Sulla parete di fondo una Retroproiezione di Place des Vosges.

Una rappresentazione di un momento?
Marcio Kogan abita al sedicesimo piano di un grattacielo. All’interno dell’abitazione c’è una grande finestra, come uno schermo da Cinemascope perché, prima di dedicarsi all’architettura, era un cineasta e ha girato un film e alcuni corti. Salendo da una scala interna si accede ad un terrazzo. Ho rappresentato questo momento e comunicato, a chi entrava nello spazio da me creato, la sensazione provata. Quattro gradini, tre passi per il corridoio, arrivi sulla terrazza e ti affacci al panorama. Sei a pochi centimetri dal suolo, ma a terra la planimetria, la mappa di São Paulo. Sul soffitto, invece, scorre una proiezione di un cielo dalle nuvole in movimento che, grazie ad uno specchio aumenta di estensione. Le pareti di cemento riprendono le sue architetture e un cubo grigio, tra il cielo e il pavimento, sembra galleggiare nel vuoto.

Di Valentina Canzi | UncoMag x BoBos

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