Bonjour Tristesse!

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Il 20 Marzo è stata la giornata mondiale della felicità. Aristotele diceva che “La Felicità è lo scopo ultimo della vita umana”. Mazza che ansia. Qualcosa che ti sembra di rincorrere da sempre e non ottenere mai, vero e angosciante. Poi c’era Al Bano, a cui bastava un panino con un bambino…

La famosa ricerca della felicità.

La cosa assurda è che per quanto possiamo interrogarci su cosa sia la felicità, essa non ha una durata, non ha un’essenza, perché spesso non è concreta. E’ un sentimento provato, un gesto, un’emozione. E la cosa ancor più assurda è che nella maggior parte delle occasioni ci rendiamo conto di essa solo quando è passata. “Sono stato felice quando” e solo a posteriori siete in grado di fare la lista di quei momenti magici, quelli in cui avete riso a crepapelle, quelli dove avete il ricordo nitido di un profumo, di un colore, di una voce vi hanno segnato profondamente, di quelli che vi hanno tolto il fiato.

Per lo più si vive di momenti di serenità e momenti di tribolazione, anzi, i secondi superano nettamente i primi. Anche perché è matematicamente impossibile che tutto, lavoro, famiglia, amicizie, salute, amore, vada bene contemporaneamente. Non credo nella felicità come appagamento allineato dei frangenti della vita. Questa la chiamo serena routine, pacifica sopravvivenza, che, sinceramente, boh, c’è a chi piace e a chi no. A me personalmente un po’ disturba, la routine tende a tramutarsi in breve tempo in uno stato dell’essere statico, quindi di noia e di conseguenza portare al nuovo giro di insoddisfazione. La mediocrità mi terrorizza, mi sembra una non-vita, si fa veloce il passo al raggiungimento dell’infelicità. Chissà per quale motivo è così facile definire l’infelicità e così complicato trovare il vestito di parole giusto per la felicità, linguisticamente il suo contrario. Mah.

Certo, di consigli su come essere felici ne abbiamo a bizzeffe. Ma andate a quel paese con i vostri suggerimenti da guru orientali.

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Io credo che la vita sia un’altalena, dove valga la pena provare il più spesso possibile emozioni forti, non esperienze forti, sia chiaro. Emozioni sentite, amplificate. Un po’ lanciarsi nelle situazioni e stare tanto male e stare tanto bene, innamorarsi e odiare, gioire e soffrire. Le mezze misure, alla fine, ti tolgono entusiasmo e vitalità. Sono assolutamente convinta che molte persone, proprio per non rimanere deluse o ferite, per non vivere il secondo lato della medaglia, scelgano di non sentire completamente, decidano a priori di restare un passo indietro, trattenersi, non vivere al 100% le emozioni. Ecco, secondo me la felicità è la conseguenza pensata di un’emozione. Prima provi piacere, o entusiasmo, o divertimento, poi la definisci felicità, nel ricordo di quel lasso temporale. Ma quella breve emozione deve penetrarti ogni poro, arrivarti al cervello, friggertelo e passare al centro del cuore, dove rimane attaccato al pericardio come una sanguisuga.

Perché quando ti viene chiesto: “Sei felice?” spesso non sei in grado di rispondere con convinzione “Sì, sono felice”. Perché? Non credo sia per scaramanzia. Forse devi ancora immagazzinare e rielaborare ciò che hai provato, ok. O forse devi imparare ancora a sentire, con ogni parte di te, lasciarti andare, che la paura e il rischio ci saranno sempre, tanto vale sfidarle. Lanciarsi nella vita senza paracadute, senza salvagenti o cuscinetti anti-urto perché senza botte, lividi e ferite sul cuore pensi davvero sia possibile arrivare alla felicità?

Snoopy ciotola piena

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