Questa settimana mi permetto ancora di consigliarvi il lavoro di un cineasta americano, giovane e indipendente, che credo stia producendo alcuni dei migliori film a basso budget visti dall’inizio del nuovo millennio.
Jim Mickle, trentacinque anni, nato in Pennsylvania, è regista e co-sceneggiatore di quattro film che vale la pena di scoprire. Mickle lavora sempre, in fase di scrittura, assieme all’attore Nick Damici, protagonista dei primi due titoli e nel cast degli altri due.
Damici è un newyorchese di quelli d’una volta, più vecchio dell’amico, potrebbe essere appartenuto alla gang del primo Scorsese. Un tipo da strada, insomma. La sue sensibilità e quelle di Mickle si completano a vicenda, creando un impasto che al solito genere horror è in grado di infondere una grande umanità, nonché problematiche che vanno al di là del semplice spavento.
Mulberry Street (2006) è un film che si ama o si odia. Girato con un budget irrisorio, assieme ad amici e parenti, nell’isolato e nell’appartamento di Damici, riporta la struttura classica dello zombi movie all’interno di quel contesto di satira sociale che in primis aveva mosso Romero verso la nascita della sua storica trilogia.
I poveri inquilini di Mulberry Street, infatti, sono vittime di uno sfratto: il loro palazzo sarà demolito per fare posto a un complesso di moderni appartamenti, gli stessi che hanno reso New York off limits per chi non sia milionario.
Al posto di ricchi imprenditori, però, la città viene invasa da una mutazione che trasforma i cittadini in … ratti giganti. I nostri eroi, tra i quali ci sono un pugile (Damici); sua figlia, tornata dall’Iraq col volto sfregiato da una mina; una travestito e un anziano con difficoltà respiratorie, dovranno barricarsi e difendere il loro territorio, destinato purtroppo a diventare cosa del passato.
Malinconico come il primo Rocky, inventivo come l’originale Notte dei morti viventi, Mulberry Street è una storia di persone alla deriva, vere. Più cogitabondo degli horror che siete abituati a vedere, sfoggia una maturità registica che, considerate le restrizioni economiche e l’inesperienza di Mickle, ha del miracoloso.
Stakeland (2010) è tutt’altra storia, anche se restiamo nel macro-gruppo zombi. La Terra è stata distrutta da un virus che ha trasformato gli esseri umani in vampiri: mostri fatti di puro istinto omicida, che nulla conservano della loro personalità. Un ragazzo perde la famiglia e si trova a viaggiare con un silenzioso killer di mostri, Mister (Damici), che diventerà una sorta di padre putativo. Come vuole il canone i veri nemici non saranno tanto i vampiri quanto una setta di fanatici religiosi, convinti che la pestilenza sia manifestazione del volere di Dio.
Stakeland è, a mio, avviso, il migliore rip-off del genere assieme a 28 giorni dopo. L’atmosfera è di una cupezza oppressiva ed i rapporti tra i protagonisti, che vanno a formare una sorta di famiglia disfunzionale, sono scritti e recitati con grande sobrietà e senso del realismo. Ci sono momenti di puro culto (la serata di festa nella comunità di sopravvissuti distrutta dall’attacco dei fanatici, che gettano vampiri da un elicottero sulla folla) e rimandi ad altri generi, in particolare il western.
Ancora non sono riuscito a vedere We Are What We Are (2013), remake dell’omonimo film messicano del 2010. è stato presentato al Sundance Film Festival e a Cannes. Le recensioni della stampa internazionale ne parlano molto bene.
Ho visto, invece, Cold in July (2014): prima incursione della coppia Mickle-Damici fuori dall’horror, con un cast importante, che include l’ex Dexter Michael C. Hall, il grande Sam Shepard e il redivivo Don Johnson.
Si tratta di un appassionante pulp-thriller texano, tratto da un romanzo di Joe R. Landsdale, che inizia come un vigilante movie, diventa una specie di Cape Fear, poi vira sul revenge movie, per finire con una sparatoria degna di Taxi Driver. Da anni non assistevo a una trama capace di stupirmi a ogni curva, come se il film fosse materia liquida, in grado di cambiare genere ogni venti minuti, rimanendo stilisticamente coerente.
Splendida l’ambientazione anni ’80, con una colonna sonora che omaggia quelle, meravigliose, del primo Carpenter: a tutto synth! Attori bravissimi, tensione alle stelle e, per la prima volta nella filmografia di Mickle, una bella dose di ironia. Se questo è il pulp potrei anche redimere la mia antipatia per l’infinito io-me-tiro del Tarantino post-Pulp Fiction.